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Archive for dicembre 2012

 

giuseppe_ungarettiLa mia amica Donatella mi chiede se la poesia ungarettiana, la sua ricerca della parola essenziale ed esatta ha ancora un valore oggi e se Ungaretti  è ancora un maestro, un modello di riferimento per i poeti contemporanei.

Rispondo …

La poesia contemporanea, al pari della società, è andata via via dimenticando il valore della parola, piegandola agli usi più svariati e allontanandosi dalla sua essenza fondamentale quale mezzo di comunicazione di sè. Circolano ovunuqe milioni di poesie, miliardi di versi, con i mezzi più disparati. Ma quale sia la qualità di tali scritti pare non avere importanza. C’è come l’ansia di scriversi addosso, di riversare fuori un mondo personale nella speranza che qualcuno ascolti, possibilmente senza giudicare.

   La poesia non è un’accozzaglia di parole, né tantomeno si misura a peso. La poesia è comunicazione allo stato puro, è una lente d’ingrandimento che il poeta utilizza per evidenziare una realtà altrimenti ignorata o sottovalutata. Una realtà che, partendo da sé, si irradia inevitabilmente agli altri, nel gioco sempre giocato del comune sentire, del riconoscersi “una docile fibra dell’universo”.

    Oggi, paradossalmente, con la parola non si comunica più. La si pronuncia, la si scrive per celare qualcosa, per attirare l’attenzione, per stupire, per offendere. La parola resta dov’è, non si carica di valori simbolici, non suggerisce, non vibra, non emoziona. 

   Nell’odierna società occidentale che oggi abusa della parola, utilizzandola per i più disparati fini – arrivando persino a stravolgerne completamente il significato – la poesia di Giuseppe Ungaretti costituisce quella luce a cui tutti dovrebbero volgere lo sguardo. Tutti, non soltanto i poeti. Ma soprattutto i poeti.

  “Quando trovo

in questo mio silenzio

una parola

scavata è nella mia vita

come un abisso”

(da “Commiato”)

    Poche e misurate parole. Anche una sola parola, una soltanto.  Ma talmente carica di significato da dire una vita intera, da scoprire un abisso e farvi precipitare il lettore. Un lavoro di scarnificazione, quello operato da Ungaretti, che erompe come una necessità fisiologica e che si libera di ogni orpello, finanche della metrica tradizionale. Perché la parola che emerge dal buio e dal silenzio è talmente fulminea da spiazzare per primo il poeta, portandolo a elaborare emotivamente il proprio mondo interiore. Dunque, una parola che nella sua genesi costringe a una sofferta autoanalisi, per poi espandere il suo significato al mondo interno, all’intera condizione umana.   

   Non solo l’uso essenziale delle parole è da ricondurre con merito a Ungaretti, ma soprattutto l’utilizzo dello spazio bianco, di un silenzio carico di suggestioni. Il bianco che irrompe nella struttura dei versi è più potente delle parole stesse, costringe a riflettere, a decodificare il silenzio. Il silenzio rende il giusto peso alle parole, che altrimenti si perderebbero come gocce nell’oceano. La parola isolata si carica di una potenza inaudita e indescrivibile.

    Oggi, nella società della comunicazione globale dove chi troppo dice nulla dice, sempre più spesso si avverte l’esigenza di una tregua dal chiacchiericcio, dalla cacofonia che esce dagli altoparlanti e dalla carta stampata, e dai libri di certi “poeti”.

 “In un mondo in cui si parla e si scrive così tanto, lo scopo della poesia è diventato quello di ripristinare il silenzio, la capacità di tacere.”

 Questa l’illuminante verità espressa oggi dalla poetessa rumena Ana Blandiana. Una verità alla quale Giuseppe Ungaretti era giunto parecchi anni prima, praticando quell’arte del togliere che pare diventata un mestiere in disuso.

 “Di questa poesia

mi resta

quel nulla

d’inesauribile segreto”

(da “Il Porto Sepolto”)

 

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